Ma alla fine Napolitano cosa avrebbe dovuto dire?
Che la nazione sarda ha tutto il diritto alla sua
indipendenza e che in fondo lui non è il presidente dei sardi?
E certo che mi sarebbe piaciuto, ma non è così che vanno le
cose: Giorgio Napolitano è il presidente della Repubblica Italiana, che
considera la Sardegna come parte integrante del proprio territorio e quindi il
suo discorso è coerente da questo punto di vista.
Se a questo aggiungiamo un anno di ubriacatura di cerimoniosa
retorica risorgimentale per le celebrazioni della presunta “unità d’Italia”, il
quadro è completo.
Quello che stupisce è piuttosto il comportamento degli
amministratori sardi, Massimo Zedda e Ugo Cappellacci in primis.
Analizziamo i discorsi fatti in occasione della sua visita nella capitale della
Sardegna:
il presidente della Regione Autonoma della Sardegna Ugo Cappellacci si profonde subito in interpretazioni alquanto bizzarre, toccando punte di comicità
involontaria:
“Se i sardi non avessero scelto,
nei momenti più importanti della loro storia, di mettere da parte gli egoismi e
di sacrificare i loro interessi più immediati al bene della Nazione, oggi la
nostra Isola non sarebbe così pienamente inserita nel Paese. E anche l’Italia,
con tutta probabilità, non sarebbe la stessa.”
Dove sarebbe la
scelta? Si riferisce forse ai sardi morti della grande guerra? Quelli non
scelsero: vennero mandati al macello senza tanti complimenti, imbottiti di alcool
e senza possibilità di battere in ritirata.
Oppure parla
della “fusione perfetta”, che subito dopo citerà? Quella non fu il popolo a
volerla, ma un manipolo di notabili in piena solitudine, abbagliati dal voler
essere più uguali dei piemontesi.
O si riferisce a
se stesso e ai suoi predecessori che anteposero gli interessi italiani a quelli
sardi? Quella fu scelta solo loro.
Ma continuiamo, perché
è esilarante:
“L’Unità
– ha concluso il presidente Cappellacci - non deve essere soltanto una data da
commemorare ma un valore da vivere e testimoniare ogni giorno e soprattutto da
tradurre in pratica con atti concreti. L’ho detto nei giorni scorsi di fronte
al Parlamento sardo: smettiamo di pensare come un popolo e cominciamo ad essere
un popolo sardo, italiano, europeo. Smettiamo di parlare di Unità e cominciamo
ad essere uniti come sardi, come italiani, come europei. Siamo i motori del
cambiamento che desideriamo: cambiamo noi stessi per poter cambiare il Paese.
Abbiamo la capacità e le energie per riuscirci e lo abbiamo già dimostrato.
Solo così il futuro sarà nostro, il futuro dell’Italia e il futuro della
Sardegna. Perché non possiamo immaginare uno dei due senza l’altro.”
Con buona pace
di chi, non si sa su che basi, vedeva in lui un probabile eroe del popolo sardo.
Il PSd’Az poi si faccia una domanda e si dia una risposta.
E ancora cita
Cossiga, dicendo che “Cossiga stesso esaltava questo sacrificio dei sardi da cui nacque
il nucleo fondativo del Regno d’Italia”: quindi ancora ci raccontiamo la
balla secondo cui l’Italia nacque in Sardegna. Peccato che la Sardegna nel
regno omonimo contasse come il due di briscola e che l’Italia la conquistarono
i Savoia.
Ma verso la
conclusione si raggiungono vette da brivido… tenetevi forte:
“Penso che
il cammino, difficile ma al tempo stesso esaltante, compiuto dalla Sardegna per
entrare a far parte a pieno titolo della Nazione italiana possa costituire un
esempio nei tempi che stiamo vivendo”
Quindi ammette
che i sardi non sono italiani, ma che la loro italianizzazione è una mera forzatura.
Che a lui evidentemente piace, ma ad altri fortunatamente no.
“Al processo risorgimentale e di unificazione nazionale Cagliari e
la Sardegna parteciparono con convinzione ed anzi con entusiasmo; centinaia
furono i sardi caduti nelle tre guerre di indipendenza. E permettetemi di
sottolineare che furono soprattutto dei giovani, come quelli che oggi sono
presenti qui in sala, che credettero in quell’idea e per essa si sacrificarono.”
Entusiasmo è una parola grossa: qualcuno certamente partecipò, ma
alla maggioranza della popolazione poco importava di ciò che accadeva
oltremare. Quanto alle centinaia di morti, non credo sia il criterio giusto per
leggere la storia dei popoli. Se è per quello molti sardi perirono anche nelle
guerre della Corona di Spagna: se facciamo il conto dei morti, attività assai
macabra, non vorrei che andasse a finire che siamo spagnoli. Lasciamo perdere,
che è meglio.
“Pur nell’imperversare dei revisionismi – in
sede storiografica, politica e persino cinematografica – ed anzi, proprio a
fronte delle rivisitazioni del Risorgimento in chiave ipercritica e nostalgica
dei bei tempi che furono, o che sarebbero stati, al Nord come al Sud e nelle
Isole, prima dell’Unità d’Italia, noi ci chiediamo, e non possiamo non
chiederci: ma davvero saremmo oggi più liberi e più forti, e meglio attrezzati
a far fronte ai gravi problemi che derivano dalla crisi e dal “ mondo grande
e terribile “, se fossimo ancora oggi, per dirla con il poeta, “ un popol diviso per settedestini, / in sette spezzato per sette confini?”
e terribile “, se fossimo ancora oggi, per dirla con il poeta, “ un popol diviso per settedestini, / in sette spezzato per sette confini?”
Come? Di quali revisionismi parla? Di quali nostalgie dei bei
tempi che furono? Sia ben chiaro che l’indipendentismo (o almeno la sua
grandissima parte), tanto abbiamo capito che si stia riferendo a questo, non è
nostalgia di un’ipotetica età dell’oro, ma semplice volontà di creare uno stato
indipendente per la nazione sarda, come previsto per ogni nazione senza stato anche a livello
internazionale. Dei “settedestini”, sinceramente, poco ci interessa: ci basta
il nostro.
“Credo si possa rispondere di no, e non già per
mera accettazione del fatto compiuto, ma perché davvero con l’Unità d’Italia
sono state poste le premesse per il successivo svolgersi, in senso democratico
e civile, della storia del nostro Paese, fino alla resistenza contro il fascismo
ed il nazismo ed alla conquista della Costituzione repubblicana.”
Ricorderei al sindaco che anche la Sardegna spagnola era fatto
compiuto quando fu, come lo fu la Jugoslavia prima del suo crollo o come lo fu
l’URSS: meglio che la storia non la si legga a suon di fatti compiuti, perché non
è un buon metodo. Oltretutto la ricostruzione è fantasiosa e fa acqua da tutte
le parti, considerato che annessioni territoriali, guerre e fascismo non sono per
forza di cose tappe necessarie ed imprescindibili per arrivare alla democrazia:
una Sardegna indipendente avrebbe eventualmente potuto arrivarci da sola,
magari anche senza tutto quel sangue versato. Ma lo sappiamo che la storia non si
fa con i “se” e con i “ma”.
Ma teniamoci nuovamente ben saldi alla sedia:
“In Sardegna, peraltro, il rigore e la sobrietà
sono usuali fino a costituire quasi la cifra del modo di intendere la vita,
quella domestica e quella sociale”
Sindaco, quella che lei chiama pomposamente sobrietà, si chiama in
realtà miseria. La differenza è abissale.
Di questo discorso salvo soltanto la parte in cui sono stati
ricordati il rapimento di Rossella Urru e la scomparsa del prof. Giovanni
Lillliu.
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