mercoledì 28 marzo 2012

Indignados desaparecidos

Ci siamo già dimenticati delle occupazioni dei cosiddetti "indignados" in Spagna?
Va bene che abbiamo un po' tutti la memoria corta, ma almeno vagamente penso che sia una cosa di cui ancora possiamo ricordarci. Ma che fine hanno fatto?

Ebbene, io ricordo migliaia di giovani, per lo più con "facce da borghesi" per dirla con Pasolini, ma non solo, che accampati a Puerta del Sol, nel cuore di Madrid, manifestavano un po' confusamente contro un non meglio precisato sistema, chiedendo più democrazia e partecipazione "dal basso" e il superamento del dualismo socialisti - popolari.
Non mi risulta che l'abbiano ottenuta, ma di sicuro hanno almeno in parte contribuito alla sconfitta del PSOE e alla vittoria dei popolari, con il risultato che il conservatore Mariano Rajoy è ora capo del governo spagnolo.

Delle richieste, pur vaghe, dei ragazzi di Puerta del Sol non rimane più nulla: lo stato sociale è in pericolo in Spagna come nel resto d'Europa, i lavoratori rischiano di veder erosi i loro diritti e il conservatorismo del Partido Popular minaccia i passi in avanti fatti con il governo socialista sul piano dei diritti civili.

L'Europa intera si trova in mezzo alla più grande offensiva neoliberista dai tempi di Reagan e queste manifestazioni fini a se stesse, dove manca una vera e credibile proposta politica, dove solo l'indignazione viene resa visibile, non possono in alcun modo contrastarla, ma, forse involontariamente, rischiano anche di spianarle la strada.
E in Spagna è successo proprio questo: la piazza piena di manifestanti, la destra liberista e conservatrice al governo e la sinistra, pur con le sue colpe, all'opposizione.
I voti che mancano al PSOE dimostrano che gli elettori, invece di spostare i loro voti più a sinistra hanno preferito consegnare il govrno ai conservatori.

Il problema vero è proprio che la mancanza di proposte e di alternative, il vuoto ideologico di quel tipo di movimenti di protesta, generano un sentimento di qualunquismo diffuso che fa il gioco della destra populista che cavalca lo scontento parlando alle viscere anzichè alla testa.

Attenzione, non sto attaccando chi manifestava sinceramente, ma vorrei che fosse chiaro che la contestazione fine a se stessa non solo non serve, ma risulta addirittura dannosa: nel caso specifico dei ragazzi di Puerta del Sol (ma è un discorso che si può allargare a tutti i loro emuli d'occidente) è evidente come sia del tutto inutile dirsi indignati per una situazione di crisi economica generata dalla natura stessa del sistema capitalista e non proporre di fatto alcuna alternativa, rifiutando il sistema della democrazia rappresentativa per proporre una utopica "democrazia partecipativa", termine quanto mai abusato e allo stesso tempo vago, negando ai partiti il loro ruolo di strumento democratico e contenitore di idee, ideali e, qui si, di partecipazione democratica. Perchè è all'interno dei partiti che si esercita la partecipazione politica e lo svuotamento del loro ruolo è il vero attacco alla democrazia.

Cosa sarebbe dunque questa democrazia partecipativa? Se ne parla più o meno dagli anni 60: la sua teorizzazione nasce negli ambienti "new left" e si fonda sul principio secondo il quale le democrazie rappresentative tenderebbero a confinare la partecipazione del cittadino al solo momento del voto, lasciando poi agli eletti il compito di decidere.
Permettetemi di far notare che le cose non stanno proprio così: certo il principio di rappresentanza impone che la decisione sia in capo all'eletto che appunto rappresenta una parte di cittadini, ma è anche vero che il cittadino ha sempre la possibilità di partecipare attivamente alla vita politica anche e soprattutto all'interno dei partiti. E più questi sono democratici al loro interno, più la partecipazione del singolo è garantita e tutelata. Aggiungerei che un buon numero di partiti sono segno di vitalità democratica e non di "caos" come alcuni sostenitori del bipartitismo vorrebbero far credere.

In sostanza la democrazia rappresentativa garantisce già la partecipazione dal basso: basta che ci sia democrazia interna nei partiti e soprattutto basta partecipare...

Sembra invece che indignados e affini si muovano sull'onda dell'antipolitica galoppante, rifiutando il sistema della democrazia rappresentativa parlamentare per lasciare il posto a populismi viscerali e rischiando di trasformarsi in facile preda di nuovi "uomini della provvidenza" che dicono di venire dal popolo per parlare al popolo e fare gli interessi del popolo. Già visto, grazie. Come se poi il popolo fosse un magma indistinto e avesse gli stessi medesimi interessi e priorità a tutti i livelli. Nuovi guru dell'antipolitica che sono in realtà portatori di un vuoto ideologico abissale e pericolosissimo e che spesso, consapevolmente o meno, fanno il gioco delle destre più conservatrici ed estreme.

Ma allora sto difendendo lo status quo? No, è esattamente il contrario: l'occidente è già sprofondato in una deriva politica senza precedenti, dove tra qualunquismi di vario genere, conservatorismi populisti  e oligarchie bipartitiche si sta facendo tabula rasa dei meccanismi democratici che, pur imperfetti, sono comunque gli unici che riescano a garantire la reale partecipazione a chi abbia la voglia di farlo.

lunedì 12 marzo 2012

Non sarà l'Italia a salvare il sardo

E' di questi giorni la notizia che il governo italiano, con la ratifica della Carta Europea delle lingue minoritarie o regionali, ha finalmente riconosciuto pienamente la lingua sarda tra le 12 lingue minoritarie dello stato italiano.
Ma nel concreto cosa significa? Poco e nulla: si riconosce il diritto ad utilizzare il sardo anche in ambito ufficiale (ma questo era già previsto, seppur raramente applicato) e la possibilità di insegnarlo nelle scuole. Bene. E quindi?
E quindi senza una volontà da parte dei sardi stessi e delle istituzioni tutto rimarrà com'è.
Intanto si parla di "possibilità" di insegnamento nelle scuole, cioè non è automatico e se nessuno provvederà ad agire in tal senso tutto continuerà come adesso.

Credo sinceramente che sia inutile continuare a sperare che sia lo stato italiano a dover tutelare la nostra lingua quando noi invece continuiamo ad affossarla giorno dopo giorno.
Per salvare il sardo dall'estinzione dobbiamo superare una serie di ostacoli che noi stessi abbiamo costruito nel tempo:

per prima cosa sarebbe utile smettere di arrovellarsi sulla questione dello standard unico, diatriba incessante quanto dannosa e sterile che ha portato solo a esperimenti fallimentari come LSU e LSC, castelli di carte che sono immediatamente crollati su se stessi; il sardo ha già due standard codificati nel tempo e non credo sia un dramma adottarli entrambi come si fa in altri paesi, non ultima ad esempio la Norvegia, dove Bokmål e Nynorsk convivono senza problemi (e dove anche l'uso dei dialetti locali è ovunque comunemente accettato e questi vengono considerati parte della lingua norvegese a tutti gli effetti).

C'è poi il problema culturale, difficile da superare, ma ovviamente ineludibile: se infatti è vero che il sardo è miracolosamente sopravvissuto alla furia italianizzatrice dei Savoia e del fascismo prima e dello stato repubblicano poi, è vero anche che oggi non gode certo di ottima salute e paghiamo ancora un'ignoranza indotta che dagli anni 50 in poi si è rinvigorita e ha portato ad espellere la lingua autoctona anche dal ristretto ambito familiare. Se oggi in pochi parlano il sardo è anche e soprattutto perchè negli anni passati le famiglie sarde, con la scuola e le istituzioni come "mandanti", imponevano ai bambini l'uso dell'italiano sempre e comunque, col risultato che ci troviamo ora intere generazioni che il sardo non lo parlano e al limite riescono a capirlo.
Quanti avranno sentito più volte frasi del tipo "non parlare in sardo che è grezzo"? Scommetto molti.
Ancora oggi alcuni strati della società, soprattutto la middle class urbana, considera l'uso del sardo come qualcosa da evitare e legato a un basso livello culturale, roba da "bidduncoli", giusto per intenderci.
In questo contesto la lingua sarda è stata perciò declassata, al limite, a lingua del gioco e dello sberleffo, ma nulla di più.
E' in questo contesto dunque che bisogna agire: molte volte si prova a fare il paragone tra il sardo e il catalano, interrogandosi sul perchè quest'ultimo, dopo la violenza anche culturale praticata dal franchismo, sia oggi una lingua più che mai viva, vitale e largamente usata a tutti i livelli, mentre in Sardegna siamo ancora nella situazione che ben conosciamo. Semplicemente in Catalogna tutti gli strati culturali hanno consapevolezza del valore della lingua nazionale, mentre in Sardegna questo ancora non succede.

Per questo dico che non è possibile pensare che la salvezza del sardo possa arrivare dall'Italia o comunque da fuori, quando i peggiori nemici della nostra lingua li abbiamo in casa e non facciamo nulla per cambiare le cose.

Le istituzioni sarde cosa fanno per il sardo? Nulla se non una serie di stanziamenti di fondi più o meno cospicui che spesso si perdono in inutili iniziative come libri o riviste che nessuno legge o programmi radiofonici o televisivi che nessuno segue e che si occupano di folklore o poco più.
Intanto la nostra editoria locale è quasi interamente italofona, la comunicazione pubblicitaria usa solo ed esclusivamente l'italiano, la segnaletica bilingue è quasi un'utopia e il sardo nell'amministrazione pubblica è una sorta di paravento che copre l'inerzia in campo linguistico.

Ben venga dunque la ratifica della Carta Europea delle lingue minoritarie, ma dobbiamo ancora lavorare molto su noi stessi.