mercoledì 7 novembre 2012

L'assalto al Palazzo d'Inverno

Non facciamo ironia sulla rivoluzione, che però resta cosa seria e soprattutto temo sia più adatta ai libri di storia che alla politica contemporanea. Ma non è questo il punto.
Il punto è che oggi alcune centinaia di persone, autodefinitesi portavoce di tutto il popolo sardo, si sono radunate sotto il Consiglio Regionale  per reclamare le dimissioni dell'intera assemblea.
Ora, più che sui contenuti della protesta portata avanti dalla "consulta rivoluzionaria", che mi vedono in massima parte in disaccordo e che meriterebbero una riflessione a parte, vorrei concentrarmi sul metodo.

Per assurdo potremmo anche sostenere che il Consiglio Regionale, la vera e democraticamente eletta assemblea del popolo sardo, fosse interamente composto da rappresentanti della peggior specie (in realtà qualcuno lo è, ma altri no: non è possibile fare di tutta l'erba un fascio), ma per un semplicissimo quanto ferreo principio democratico, essendo stati eletti con libere elezioni hanno non solo il diritto, ma il dovere di rimanere in carica finchè la legislatura non arriva al termine per scadenza naturale o per ragioni politiche (come potrebbero esserlo eventuali dimissioni anticipate del presidente della Regione a seguito, per esempio, del venir meno della maggioranza che lo sostiene).
Se passasse il principio per cui un intero consiglio regionale si deve dimettere perchè lo chiedono alcuni manifestanti che usano toni minacciosi, parlano di rivoluzione e si autoarrogano il diritto di parlare a nome di tutti i sardi (che però non li hanno votati), cadrebbe come un castello di carte il principio base della democrazia rappresentativa e da quel momento in avanti qualunque consiglio e qualunque governo sarebbero costantemente a rischio, con il voto popolare che perderebbe del tutto il suo valore, ostaggio di piazze più o meno raccogliticce, più o meno esagitate.

Questo non significa affatto che il sottoscritto sia contro le manifestazioni di piazza, anzi: il diritto a manifestare il proprio pensiero è legittimo ed è fondamentale in una democrazia; quello che contesto sono i toni utilizzati in questo frangente, l'autoproclamarsi portavoce di un intero popolo, il proporsi di scardinare un impianto democratico, il populismo diffuso che fa leva sul malcontento.
Da quella piazza sento ad esempio parlare di "tribunali popolari" e devo ammettere che mi si ghiaccia il sangue nelle vene solo a pensarci. Ovviamente sono sicuro che nessuno abbia seriamente intenzione di istituire nessun tribunale popolare (lo spero!), ma sono parole pesanti che portano indietro nel tempo, ad anni pesanti e di cui credo nessuno possa sentire la nostalgia.
Altre voci si definiscono "gli anticorpi che questo popolo si è dato", raffigurando il sistema democratico esistente come una malattia e, nuovamente, autonominandosi portavoce del popolo.

Ecco, tutto qui. Legittimo manifestare il dissenso, legittimo anche usare toni un po' sopra le righe, ma trovo quanto meno discutibile porsi in aperto contrasto con le regole della democrazia.

sabato 6 ottobre 2012

Tiro al bersagio: campagna stampa contro Cuba

una trentina di ore fa era stata arrestata la blogger cubana Yoani Sanchez: pare volesse partecipare al processo che vede imputato per omicidio un esponente del PP spagnolo, Angel Carromero, coinvolto in un incidente d'auto in cui hanno perso la vita due "dissidenti" cubani, ma il rischio era che la sua partecipazione al processo si trasformasse in una sorta di show contro il governo cubano.
Fosse accaduto in un altro stato, gente così sarebbe stata definita "sovversiva insurrezionalista", ma se succede a Cuba diventano "dissidenti": quale stato permette a chicchessia di minare le basi su cui è fondato? Direi nessuno. Ma per Cuba questo diritto non vale.

In buona sostanza è nuovamente partita la campagna della stampa mondiale contro l'isola caraibica, fatta prima di informazioni mendaci sui casi di colera, poi di subdole insinuazioni sull'incidente in cui è imputato Carromero con la stampa internazionale che già vedeva oscuri disegni dei servizi segreti cubani, poi ancora il polverone sui giornalisti italiani che, spacciandosi per turisti (quindi dichiarando il falso per varcare la frontiera), indagavano su un caso di omicidio avvenuto in Italia in cui tra i sospettati c'è un cittadino cubano.

Ora, come previsto, a processo terminato la Sanchez è stata liberata e potrà tornare come sempre a scrivere le sue opinioni sul suo blog e farsi intervistare indisturbata per le strade de l'Havana dai media europei e americani. 
Tutto questo mentre gli US
A hanno inserito nuovamente Cuba tra gli stati "canaglia", ovvero quelli che sono considerati vicini o fiancheggiatori del terrorismo internazionale. Dimenticando il piccolo particolae che non solo Cuba non appoggia e non ha mai appoggiato alcun terrorista, ma che negli anni ha subito numerosi attentati sul proprio territorio, organizzati negli USA dai cosiddetti "dissidenti" (ma in realtà veri e propri terroristi), che hanno fatto registrare migliaia di morti.
Non è necessario essere comunisti o castristi per capire che si tratta di fango gettato sopra un'intera nazione.


Scusatemi, ma io non intendo partecipare a questo tiro al bersaglio ai danni, oltretutto, di uno stato da oltre 50 anni sotto un embargo ingiusto e crudele...

giovedì 13 settembre 2012

Lavoro: benvenuti all'inferno

Ricordate Emma Marcegaglia che, da presidente di Confindustria, inveiva contro lo sfruttamento e il lavoro nero? La stessa Marcegaglia che si faceva paladina dei lavoratori i cui diritti, a detta sua, sarebbero stati a rischio con la riforma Fornero.
La stessa Marcegaglia che però vorrebbe l'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, togliendo di fatto le tutele ai pochi che ancora le hanno.
E ancora, la stessa Marcegaglia che nella sua struttura alberghiera di lusso, il Forte Village di santa Margherita di Pula, in provincia di Cagliari, sembrerebbe far soldi a palate sfruttando i lavoratori a cui, a fronte di paghe non certo invidiabili, non vengono neppure pagati gli straordinari fatti in turni di lavoro massacranti.
Racconta tutto per filo e per segno Daniele Garzia, che nel preciso resoconto della sua esperienza di lavoro al Forte (pubblicata sul blog Cagliarifornia, il cui link trovate a fondo pagina) ci parla di una struttura dalla facciata scintillante che cela dietro le quinte storie di ordinaria sopraffazione, ricatti e diritti negati. All'isola dei sogni per turisti facoltosi fa da contraltare l'inferno della manovalanza.

L'articolo ha suscitato un polverone e "Il fatto quotidiano" si è preso la briga di verificare i fatti cercando altre testimonianze di ex dipendenti del Forte Village (anche di questo trovate il link a fondo pagina): il risultato è stato un quadro desolante fatto di piccoli e grandi abusi, ricatti, vessazioni e assenza di diritti.

Il problema vero è a monte: il rispetto delle regole non può e non deve essere un optional; i lavoratori non dovrebbero sottostare a certe condizioni, ma come si fa in una terra come la Sardegna in cui la disoccupazione è così alta? Chi potrebbe permettersi di rifiutare un lavoro per questioni legate al rispetto dei diritti? Pochi, purtroppo.
La verità è che la disoccupazione e la povertà sono sempre state funzionali al grande capitale in cerca di "carne da macello": se il problema occupazionale non ci fosse, nessuno accetterebbe simili condizioni e chiunque manderebbe cortesemente a stendere chi osasse proporle.

Ma la disoccupazione c'è e c'è anche il precariato: nella ricostruzione dei fatti in questione scopriamo anche la totale assenza dei sindacati dalla struttura; come si può iscriversi a un sindacato quando si è precari? Chiunque lo facesse sarebbe certo di non avere più la possibilità di lavorare durante la stagione successiva.

Ma il Forte non è una realtà isolata: buona parte del sistema poggia ormai sulla totale assenza di diritti dei lavoratori, meglio ancora se precari. O meglio, i diritti ci sarebbero, ma solo sulla carta: provateci voi a farli rispettare in questa situazione!
La legge c'è, un lavoratore precario ha certamente dei diritti, la possibilità di iscriversi a un sindacato, di scioperare, di mettersi in malattia... sulla carta appunto. Nella realtà al primo passo falso è fuori, senza lavoro, senza stipendio e senza ammortizzatori sociali. La legge non tutela. La legge è fatta per essere sistematicamente aggirata.

La continua precarizzazione del lavoro, dunque, non può che acuire questa condizione. E senza neppure uno straccio di ammortizzatori sociali continueremo ad avere un esercito di lavoratori sfruttati, sottopagati, ricattati, che baratteranno la loro dignità per un tozzo di pane. E pure secco.

Evidentemente il conflitto capitale-lavoro (se non altro di un certo capitale) non è materia del passato: esiste eccome e si manifesta sempre nelle stesse forme laddove la logica del profitto prevalga sul rispetto dei diritti.


Link:

http://www.cagliarifornia.eu/2012/09/forte-village-una-stagione-allinferno.html

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/09/11/forte-village-fortezza-sarda-della-marcegaglia-fattura-63-milioni-lanno-e-non-paga/348877/

giovedì 30 agosto 2012

Europa, avanti!

Nuovi (ma in realtà vecchi) pericolosi miti si affacciano all'orizzonte:
qualche tempo fa imperversava sui social network l'intervento al parlamento europeo di quel nazista conclamato di Nigel Farage, un personaggio che definire disgustoso è poco, e i suoi nuovi improvvisati fan lo esaltavano come salvatore delle patrie.
Ora vedo circolare un'immagine di Milton Friedman, un ultraliberista da pelle d'oca, amico e consigliere economico di quel criminale di Pinochet, uno le cui tesi fanno impallidire (praticamente l'esaltazione dell'evasione fiscale e del capitalismo selvaggio) e dal passato quantomeno imbarazzante.
Questa è la dimostrazione che la becera destra reazionaria sta facendo leva sul malcontento avventandosi sulle carcasse come fanno gli sciacalli.
Come negli anni '20 e '30 del secolo scorso, anche oggi in Europa, sulle macerie di un sistema al collasso si avventano coloro che si nutrono di carogne.
L'Europa è in crisi perchè non riesce a darsi un assetto politico vero e completo, dilaniata dai piccoli interessi di bottega e dominata dalla finanza e dalle sue speculazioni; e intanto gli sciacalli banchettano sulla sua carcassa.
Se l'Europa vuole scongiurare il rischio di un ritorno ad un passato nefasto, se vuole liberarsi davvero del virus fascista, se non vuole piombare nella tenebra che ha già conosciuto, allora deve affrettarsi a cambiare rotta e darsi un vero assetto federale, un vero governo politico e un vero parlamento.
Un ruolo importante in questo percorso, come in passato, spetta ai partiti che fanno parte della tradizione socialista, in modo da rendere la casa comune europea un esempio avanzato di diritti e garanzie.
Il tempo stringe. Avanti!

giovedì 14 giugno 2012

Indennità dei consiglieri: siamo stati anche fortunati

Leggo in rete e sento per la strada molta gente che si scandalizza per quanto accaduto l'altra notte in consiglio regionale, ovvero per la votazione che ha ripristinato i vecchi indennizzi ai consiglieri.
Si grida allo scandalo perchè è opinione diffusa che così facendo si sia tradito il risultato del referendum cosiddetto "anti casta".
Ma le cose non stanno proprio così e se l'operazione in sè non appare molto elegante da parte dei consiglieri soprattutto in tempi di crisi, la realtà è che il risultato del referendum non è stato affatto tradito: il problema è che si trattava di un quesito del tutto inutile e che, come abbiamo evidenziato da subito anche come Manca Democràtica, non prevedeva nel modo più assoluto la tanto demagogicamente sbandierata riduzione degli indennizzi.

Il quesito referendario infatti prevedeva semplicemente di abolire l'articolo di legge che fissa il tetto della retribuzione dei consiglieri regionali all'80% di quanto previsto dalla legge 31 ottobre 1965, n. 1261, ovvero del compenso dei parlamentari italiani.
Questo il testo del quesito:

"Volete voi che sia abrogato l'art. 1 della legge regionale sarda 7 aprile 1966, n. 2 recante "Provvedimenti relativi al Consiglio regionale della Sardegna" e successive modificazioni?".

Risulta evidente a chiunque lo legga e si sia preso la briga di controllare quale sia la legge che si vuole abrogare per capire che di riduzione dei compensi non c'è neppure l'ombra.
Infatti, ecco l'articolo in questione:

"Art.1L’indennità spettante ai membri del Consiglio regionale della Sardegna e il rimborso delle spese di segreteria e rappresentanza sono stabiliti dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale della Sardegna in misura non superiore all’ottanta per cento di quella fissata dalla legge 31 ottobre 1965, n. 1261.
Le disposizioni della predetta legge si applicano ai Consiglieri regionali con le modifiche di cui all’articolo seguente.
"


Cosa prevedeva quindi nella sostanza il quesito? Nulla di più che l'abolizione del tetto massimo alle indennità dei consiglieri. Nessuna riduzione, nessun taglio.
Diciamo che siamo stati anche fortunati, perchè con questo pasticcio creato dal referendum l'altra sera i consiglieri avrebbero potuto persino aumentarseli i compensi, essendo stato eliminato il tetto massimo previsto dall'articolo abrogato.

Quindi in buona sostanza, nessun tradimento della volontà popolare si è consumato nottetempo in consiglio: non è stato reintrodotto il tetto che fissa le indennità dei consiglieri all'80% di quella dei parlamentari, quindi la volontà espressa dagli elettori è salva. Chi ha votato si voleva questo, no? È scritto molto chiaro... Se si intendeva altro, beh, peccato: carta canta.

Ma quindi di cosa ci si scandalizza?
La domanda che chi oggi si agita dovrebbe porsi è "Come mai non ho letto bene il quesito e mi sono fidato acriticamente di quello che i promotori, che alla cosiddetta casta pure appartengono, hanno propagandato?"

Fatevela però questa domanda... e provate a darvi una risposta.

lunedì 7 maggio 2012

Tiriamo le somme sui referendum

La tornata referendaria sarda si è conclusa e possiamo finalmente tirare le somme.
Sarò sintetico perchè non c'è molto da dire: ritengo un immane pasticcio questi referendum, ma vorrei spiegare il perchè.
Ma quindi adesso che il quorum è stato raggiunto (con conseguente vittoria scontata dei si) la Sardegna è diventata più ricca?

Abolite le nuove province (votate nel 2000 anche da chi oggi ha promosso il referendum!), i dipendenti ovviamente non possono essere licenziati, quindi verranno trasferiti in altri enti (ergo, risparmio prossimo allo zero)

Ammesso e non concesso che anche le vecchie province vengano abolite, stessa solfa. Con l'aggravante che ci sarà una Regione ancor più centralista.

La "costituente" per riscrivere lo statuto verrà fatta solo se e quando il consiglio regionale lo riterrà opportuno. Non capisco che quesito del piffero fosse...: è una vita che sento parlare di riscrittura dello statuto, si faccia e basta se lo si vuol fare, c'era mica bisogno di un referendum.

Primarie "obbligatorie": come quando e perchè? con quale legge? Ma le primarie devono farle anche i partiti che si presentano da soli? Boh... tutto fumoso.

Riduzione a 50 dei consiglieri regionali: diminuisce la rappresentanza, la politica regionale è sempre più un affare per pochi miracolati.

Riduzione degli stipendi dei consiglieri: ma quando? ma dove? ma l'avete letto il quesito? Prevedeva di abolire l'articolo che fissa il tetto della retribuzione dei consiglieri regionali all'80% di quanto previsto dalla legge 31 ottobre 1965, n. 1261, ovvero del compenso dei parlamentari italiani. Dov'è il taglio? Ah, non c'è? Ah, si rischia pure che gli stipendi dei consiglieri aumentino? Ma che strano...

Aboliti i CdA degli enti strumentali: perfetto, quindi tutto in capo al presidente, rigorosamente di nomina politica. Alla faccia del referendum anti casta!

Quindi questa rivoluzione epocale?
Quando avrete finito di festeggiare ne riparliamo.

venerdì 6 aprile 2012

Purchè a farsi la guerra siano i figli del popolo...


A Taranto come in Sardegna, come in altre decine di luoghi va in scena la stessa commedia.
A Taranto come in Sardegna si scontrano i lavoratori dell’industria pesante e gli ambientalisti duri e puri che, per ragioni contrapposte, difendono le loro posizioni senza voler sentire gli uni le ragioni degli altri. E si scontrano due generazioni di lavoratori, due categorie l'una contro l'altra armate (per fortuna solo in senso figurato): i precari e i lavoratori più garantiti (per ora).

Ma quali sono nello specifico le posizioni in campo e gli attori di questa commedia nera?
Gli attori sono quelli che un tempo avremmo chiamato proletari, parola che ora non va più di moda, ma che vorrei continuare ad utilizzare per chiarezza: figli del popolo che traggono la propria sussistenza dal lavoro proprio e delle loro famiglie, ammesso che ce l’abbiano.

Sono figli del popolo gli operai dell’industria e lo sono anche i ragazzi (qualcuno comincia già a non esserlo più) che lavorano con contratti precari, sottopagati, senza garanzie e senza neppure l'ombra di un qualsivoglia ammortizzatore sociale; e si fronteggiano su temi spinosi e delicati come i diritti, la salvaguardia dell’ambiente e la qualità del lavoro. Ma chi avrà ragione? Tutti e nessuno.

La realtà è che al capitale questa situazione fa incredibilmente comodo;  hanno tentato di farci credere che per dare diritti ai precari era necessario toglierli a quelli che venivano definiti “lavoratori ultragarantiti”, ma la verità è un’altra: il lavoro garantito nasce da lotte sindacali dure e sofferte e lo statuto dei lavoratori è il risultato di una vittoria che andrebbe difesa ogni giorno. Ora è chiaro che la precarizzazione del lavoro è stata fin da subito un’operazione  strumentale allo scardinamento di quei diritti, portando a contrapposizione due categorie di lavoratori e facendo credere ai figli che per loro le conquiste in termini di diritti potevano avvenire solo andando a intaccare quelle dei padri.
Ovviamente non c'è niente di più falso. I diritti devono essere uguali per tutti e l’unica soluzione sarebbe quella di estendere le garanzie a coloro che non le hanno. Ma questo va chiaramente contro gli interessi di una parte del mondo imprenditoriale (non tutto, per fortuna) che vorrebbe il lavoratore costantemente sotto ricatto, possibilmente sottopagato e facilmente licenziabile.

Ma cosa c'entra in tutto questo la questione ambientale? Apparentemente nulla, ma a ben guardare non è proprio così: se da un lato le contrapposizioni sulla questione dei diritti sono funzionali alla volontà di scardinare lo statuto dei lavoratori, dall'altra la questione ambientale lo è rispetto ad un atteggiamento che non esiterei a definire piratesco per cui il profitto può passare impunemente anche attraverso l'avvelenamento dei territori. Anche in questo caso dunque i lavoratori sono usati come ariete per difendere posizioni indifendibili.
Ma non finisce qui, perchè oltre a inquinare senza pagare pegno in molti casi si cercano anche fondi pubblici sotto forma di sconti sulle tariffe energetiche, incentivi e contributi di vario genere per mantenere industrie che semplicemente non hanno più ragione d'essere nei territori sui quali insistono e che sono comunque destinate ad andare altrove: sembra l'ultimo disperato tentativo di rastrellare il più possibile prima di chiudere i battenti e scappare col bottino.

Chi esce totalmente sconfitto da questa guerra, quindi? Semplicemente chi si fa arruolare in prima linea per difendere interessi altrui, ma anche chi sbaglia obiettivo: il nemico non è mai il lavoratore, che chiaramente ha la necessità di mantenere il proprio lavoro, quindi la possibilità di vivere dignitosamente, soprattutto in assenza di alternative e di veri ammortizzatori sociali.
E non è possibile chiedere o permettere la chiusura di un'industria senza prima avere un piano alternativo per garantire il lavoro a chi vi era impiegato, così come non si possono sbandierare operazioni di bonifica senza sapere esattamente chi e come le pagherà.
Questo è, a sinistra, il compito della politica: creare un modello alternativo che permetta di produrre senza devastare il territorio e salvaguardando la dignità dei lavoratori, difendendone ed estendendone i diritti e le protezioni.



mercoledì 28 marzo 2012

Indignados desaparecidos

Ci siamo già dimenticati delle occupazioni dei cosiddetti "indignados" in Spagna?
Va bene che abbiamo un po' tutti la memoria corta, ma almeno vagamente penso che sia una cosa di cui ancora possiamo ricordarci. Ma che fine hanno fatto?

Ebbene, io ricordo migliaia di giovani, per lo più con "facce da borghesi" per dirla con Pasolini, ma non solo, che accampati a Puerta del Sol, nel cuore di Madrid, manifestavano un po' confusamente contro un non meglio precisato sistema, chiedendo più democrazia e partecipazione "dal basso" e il superamento del dualismo socialisti - popolari.
Non mi risulta che l'abbiano ottenuta, ma di sicuro hanno almeno in parte contribuito alla sconfitta del PSOE e alla vittoria dei popolari, con il risultato che il conservatore Mariano Rajoy è ora capo del governo spagnolo.

Delle richieste, pur vaghe, dei ragazzi di Puerta del Sol non rimane più nulla: lo stato sociale è in pericolo in Spagna come nel resto d'Europa, i lavoratori rischiano di veder erosi i loro diritti e il conservatorismo del Partido Popular minaccia i passi in avanti fatti con il governo socialista sul piano dei diritti civili.

L'Europa intera si trova in mezzo alla più grande offensiva neoliberista dai tempi di Reagan e queste manifestazioni fini a se stesse, dove manca una vera e credibile proposta politica, dove solo l'indignazione viene resa visibile, non possono in alcun modo contrastarla, ma, forse involontariamente, rischiano anche di spianarle la strada.
E in Spagna è successo proprio questo: la piazza piena di manifestanti, la destra liberista e conservatrice al governo e la sinistra, pur con le sue colpe, all'opposizione.
I voti che mancano al PSOE dimostrano che gli elettori, invece di spostare i loro voti più a sinistra hanno preferito consegnare il govrno ai conservatori.

Il problema vero è proprio che la mancanza di proposte e di alternative, il vuoto ideologico di quel tipo di movimenti di protesta, generano un sentimento di qualunquismo diffuso che fa il gioco della destra populista che cavalca lo scontento parlando alle viscere anzichè alla testa.

Attenzione, non sto attaccando chi manifestava sinceramente, ma vorrei che fosse chiaro che la contestazione fine a se stessa non solo non serve, ma risulta addirittura dannosa: nel caso specifico dei ragazzi di Puerta del Sol (ma è un discorso che si può allargare a tutti i loro emuli d'occidente) è evidente come sia del tutto inutile dirsi indignati per una situazione di crisi economica generata dalla natura stessa del sistema capitalista e non proporre di fatto alcuna alternativa, rifiutando il sistema della democrazia rappresentativa per proporre una utopica "democrazia partecipativa", termine quanto mai abusato e allo stesso tempo vago, negando ai partiti il loro ruolo di strumento democratico e contenitore di idee, ideali e, qui si, di partecipazione democratica. Perchè è all'interno dei partiti che si esercita la partecipazione politica e lo svuotamento del loro ruolo è il vero attacco alla democrazia.

Cosa sarebbe dunque questa democrazia partecipativa? Se ne parla più o meno dagli anni 60: la sua teorizzazione nasce negli ambienti "new left" e si fonda sul principio secondo il quale le democrazie rappresentative tenderebbero a confinare la partecipazione del cittadino al solo momento del voto, lasciando poi agli eletti il compito di decidere.
Permettetemi di far notare che le cose non stanno proprio così: certo il principio di rappresentanza impone che la decisione sia in capo all'eletto che appunto rappresenta una parte di cittadini, ma è anche vero che il cittadino ha sempre la possibilità di partecipare attivamente alla vita politica anche e soprattutto all'interno dei partiti. E più questi sono democratici al loro interno, più la partecipazione del singolo è garantita e tutelata. Aggiungerei che un buon numero di partiti sono segno di vitalità democratica e non di "caos" come alcuni sostenitori del bipartitismo vorrebbero far credere.

In sostanza la democrazia rappresentativa garantisce già la partecipazione dal basso: basta che ci sia democrazia interna nei partiti e soprattutto basta partecipare...

Sembra invece che indignados e affini si muovano sull'onda dell'antipolitica galoppante, rifiutando il sistema della democrazia rappresentativa parlamentare per lasciare il posto a populismi viscerali e rischiando di trasformarsi in facile preda di nuovi "uomini della provvidenza" che dicono di venire dal popolo per parlare al popolo e fare gli interessi del popolo. Già visto, grazie. Come se poi il popolo fosse un magma indistinto e avesse gli stessi medesimi interessi e priorità a tutti i livelli. Nuovi guru dell'antipolitica che sono in realtà portatori di un vuoto ideologico abissale e pericolosissimo e che spesso, consapevolmente o meno, fanno il gioco delle destre più conservatrici ed estreme.

Ma allora sto difendendo lo status quo? No, è esattamente il contrario: l'occidente è già sprofondato in una deriva politica senza precedenti, dove tra qualunquismi di vario genere, conservatorismi populisti  e oligarchie bipartitiche si sta facendo tabula rasa dei meccanismi democratici che, pur imperfetti, sono comunque gli unici che riescano a garantire la reale partecipazione a chi abbia la voglia di farlo.

lunedì 12 marzo 2012

Non sarà l'Italia a salvare il sardo

E' di questi giorni la notizia che il governo italiano, con la ratifica della Carta Europea delle lingue minoritarie o regionali, ha finalmente riconosciuto pienamente la lingua sarda tra le 12 lingue minoritarie dello stato italiano.
Ma nel concreto cosa significa? Poco e nulla: si riconosce il diritto ad utilizzare il sardo anche in ambito ufficiale (ma questo era già previsto, seppur raramente applicato) e la possibilità di insegnarlo nelle scuole. Bene. E quindi?
E quindi senza una volontà da parte dei sardi stessi e delle istituzioni tutto rimarrà com'è.
Intanto si parla di "possibilità" di insegnamento nelle scuole, cioè non è automatico e se nessuno provvederà ad agire in tal senso tutto continuerà come adesso.

Credo sinceramente che sia inutile continuare a sperare che sia lo stato italiano a dover tutelare la nostra lingua quando noi invece continuiamo ad affossarla giorno dopo giorno.
Per salvare il sardo dall'estinzione dobbiamo superare una serie di ostacoli che noi stessi abbiamo costruito nel tempo:

per prima cosa sarebbe utile smettere di arrovellarsi sulla questione dello standard unico, diatriba incessante quanto dannosa e sterile che ha portato solo a esperimenti fallimentari come LSU e LSC, castelli di carte che sono immediatamente crollati su se stessi; il sardo ha già due standard codificati nel tempo e non credo sia un dramma adottarli entrambi come si fa in altri paesi, non ultima ad esempio la Norvegia, dove Bokmål e Nynorsk convivono senza problemi (e dove anche l'uso dei dialetti locali è ovunque comunemente accettato e questi vengono considerati parte della lingua norvegese a tutti gli effetti).

C'è poi il problema culturale, difficile da superare, ma ovviamente ineludibile: se infatti è vero che il sardo è miracolosamente sopravvissuto alla furia italianizzatrice dei Savoia e del fascismo prima e dello stato repubblicano poi, è vero anche che oggi non gode certo di ottima salute e paghiamo ancora un'ignoranza indotta che dagli anni 50 in poi si è rinvigorita e ha portato ad espellere la lingua autoctona anche dal ristretto ambito familiare. Se oggi in pochi parlano il sardo è anche e soprattutto perchè negli anni passati le famiglie sarde, con la scuola e le istituzioni come "mandanti", imponevano ai bambini l'uso dell'italiano sempre e comunque, col risultato che ci troviamo ora intere generazioni che il sardo non lo parlano e al limite riescono a capirlo.
Quanti avranno sentito più volte frasi del tipo "non parlare in sardo che è grezzo"? Scommetto molti.
Ancora oggi alcuni strati della società, soprattutto la middle class urbana, considera l'uso del sardo come qualcosa da evitare e legato a un basso livello culturale, roba da "bidduncoli", giusto per intenderci.
In questo contesto la lingua sarda è stata perciò declassata, al limite, a lingua del gioco e dello sberleffo, ma nulla di più.
E' in questo contesto dunque che bisogna agire: molte volte si prova a fare il paragone tra il sardo e il catalano, interrogandosi sul perchè quest'ultimo, dopo la violenza anche culturale praticata dal franchismo, sia oggi una lingua più che mai viva, vitale e largamente usata a tutti i livelli, mentre in Sardegna siamo ancora nella situazione che ben conosciamo. Semplicemente in Catalogna tutti gli strati culturali hanno consapevolezza del valore della lingua nazionale, mentre in Sardegna questo ancora non succede.

Per questo dico che non è possibile pensare che la salvezza del sardo possa arrivare dall'Italia o comunque da fuori, quando i peggiori nemici della nostra lingua li abbiamo in casa e non facciamo nulla per cambiare le cose.

Le istituzioni sarde cosa fanno per il sardo? Nulla se non una serie di stanziamenti di fondi più o meno cospicui che spesso si perdono in inutili iniziative come libri o riviste che nessuno legge o programmi radiofonici o televisivi che nessuno segue e che si occupano di folklore o poco più.
Intanto la nostra editoria locale è quasi interamente italofona, la comunicazione pubblicitaria usa solo ed esclusivamente l'italiano, la segnaletica bilingue è quasi un'utopia e il sardo nell'amministrazione pubblica è una sorta di paravento che copre l'inerzia in campo linguistico.

Ben venga dunque la ratifica della Carta Europea delle lingue minoritarie, ma dobbiamo ancora lavorare molto su noi stessi.

martedì 21 febbraio 2012

Confusi e felici


Ma alla fine Napolitano cosa avrebbe dovuto dire?

Che la nazione sarda ha tutto il diritto alla sua indipendenza e che in fondo lui non è il presidente dei sardi?

E certo che mi sarebbe piaciuto, ma non è così che vanno le cose: Giorgio Napolitano è il presidente della Repubblica Italiana, che considera la Sardegna come parte integrante del proprio territorio e quindi il suo discorso è coerente da questo punto di vista.

Se a questo aggiungiamo un anno di ubriacatura di cerimoniosa retorica risorgimentale per le celebrazioni della presunta “unità d’Italia”, il quadro è completo.

Quello che stupisce è piuttosto il comportamento degli amministratori sardi, Massimo Zedda e Ugo Cappellacci in primis.
Analizziamo i discorsi fatti in occasione della sua visita nella capitale della Sardegna:

il presidente della Regione Autonoma della Sardegna Ugo Cappellacci si profonde subito in interpretazioni alquanto bizzarre, toccando punte di comicità involontaria:

Se i sardi non avessero scelto, nei momenti più importanti della loro storia, di mettere da parte gli egoismi e di sacrificare i loro interessi più immediati al bene della Nazione, oggi la nostra Isola non sarebbe così pienamente inserita nel Paese. E anche l’Italia, con tutta probabilità, non sarebbe la stessa.

Dove sarebbe la scelta? Si riferisce forse ai sardi morti della grande guerra? Quelli non scelsero: vennero mandati al macello senza tanti complimenti, imbottiti di alcool e senza possibilità di battere in ritirata.

Oppure parla della “fusione perfetta”, che subito dopo citerà? Quella non fu il popolo a volerla, ma un manipolo di notabili in piena solitudine, abbagliati dal voler essere più uguali dei piemontesi.

O si riferisce a se stesso e ai suoi predecessori che anteposero gli interessi italiani a quelli sardi? Quella fu scelta solo loro.

Ma continuiamo, perché è esilarante:
L’Unità – ha concluso il presidente Cappellacci - non deve essere soltanto una data da commemorare ma un valore da vivere e testimoniare ogni giorno e soprattutto da tradurre in pratica con atti concreti. L’ho detto nei giorni scorsi di fronte al Parlamento sardo: smettiamo di pensare come un popolo e cominciamo ad essere un popolo sardo, italiano, europeo. Smettiamo di parlare di Unità e cominciamo ad essere uniti come sardi, come italiani, come europei. Siamo i motori del cambiamento che desideriamo: cambiamo noi stessi per poter cambiare il Paese. Abbiamo la capacità e le energie per riuscirci e lo abbiamo già dimostrato. Solo così il futuro sarà nostro, il futuro dell’Italia e il futuro della Sardegna. Perché non possiamo immaginare uno dei due senza l’altro.

Con buona pace di chi, non si sa su che basi, vedeva in lui un probabile eroe del popolo sardo. Il PSd’Az poi si faccia una domanda e si dia una risposta.

E ancora cita Cossiga, dicendo che “Cossiga stesso esaltava questo sacrificio dei sardi da cui nacque il nucleo fondativo del Regno d’Italia”: quindi ancora ci raccontiamo la balla secondo cui l’Italia nacque in Sardegna. Peccato che la Sardegna nel regno omonimo contasse come il due di briscola e che l’Italia la conquistarono i Savoia.

Ma verso la conclusione si raggiungono vette da brivido… tenetevi forte:

Penso che il cammino, difficile ma al tempo stesso esaltante, compiuto dalla Sardegna per entrare a far parte a pieno titolo della Nazione italiana possa costituire un esempio nei tempi che stiamo vivendo

Quindi ammette che i sardi non sono italiani, ma che la loro italianizzazione è una mera forzatura. Che a lui evidentemente piace, ma ad altri fortunatamente no.

 Il sindaco di Cagliari si è invece profuso in un elogio melenso all’unità nazionale (italiana, naturalmente) condendola con citazioni ad effetto e una serie di inesattezze:

“Al processo risorgimentale e di unificazione nazionale Cagliari e la Sardegna parteciparono con convinzione ed anzi con entusiasmo; centinaia furono i sardi caduti nelle tre guerre di indipendenza. E permettetemi di sottolineare che furono soprattutto dei giovani, come quelli che oggi sono presenti qui in sala, che credettero in quell’idea e per essa si sacrificarono.”

Entusiasmo è una parola grossa: qualcuno certamente partecipò, ma alla maggioranza della popolazione poco importava di ciò che accadeva oltremare. Quanto alle centinaia di morti, non credo sia il criterio giusto per leggere la storia dei popoli. Se è per quello molti sardi perirono anche nelle guerre della Corona di Spagna: se facciamo il conto dei morti, attività assai macabra, non vorrei che andasse a finire che siamo spagnoli. Lasciamo perdere, che è meglio.

Pur nell’imperversare dei revisionismi – in sede storiografica, politica e persino cinematografica – ed anzi, proprio a fronte delle rivisitazioni del Risorgimento in chiave ipercritica e nostalgica dei bei tempi che furono, o che sarebbero stati, al Nord come al Sud e nelle Isole, prima dell’Unità d’Italia, noi ci chiediamo, e non possiamo non chiederci: ma davvero saremmo oggi più liberi e più forti, e meglio attrezzati a far fronte ai gravi problemi che derivano dalla crisi e dal “ mondo grande
e terribile “, se fossimo ancora oggi, per dirla con il poeta, “ un popol diviso per settedestini, / in sette spezzato per sette confini?

Come? Di quali revisionismi parla? Di quali nostalgie dei bei tempi che furono? Sia ben chiaro che l’indipendentismo (o almeno la sua grandissima parte), tanto abbiamo capito che si stia riferendo a questo, non è nostalgia di un’ipotetica età dell’oro, ma semplice volontà di creare uno stato indipendente per la nazione sarda, come previsto  per ogni nazione senza stato anche a livello internazionale. Dei “settedestini”, sinceramente, poco ci interessa: ci basta il nostro.

Credo si possa rispondere di no, e non già per mera accettazione del fatto compiuto, ma perché davvero con l’Unità d’Italia sono state poste le premesse per il successivo svolgersi, in senso democratico e civile, della storia del nostro Paese, fino alla resistenza contro il fascismo ed il nazismo ed alla conquista della Costituzione repubblicana.

Ricorderei al sindaco che anche la Sardegna spagnola era fatto compiuto quando fu, come lo fu la Jugoslavia prima del suo crollo o come lo fu l’URSS: meglio che la storia non la si legga a suon di fatti compiuti, perché non è un buon metodo. Oltretutto la ricostruzione è fantasiosa e fa acqua da tutte le parti, considerato che annessioni territoriali, guerre e fascismo non sono per forza di cose tappe necessarie ed imprescindibili per arrivare alla democrazia: una Sardegna indipendente avrebbe eventualmente potuto arrivarci da sola, magari anche senza tutto quel sangue versato. Ma lo sappiamo che la storia non si fa con i “se” e con i “ma”.

Ma teniamoci nuovamente ben saldi alla sedia:

In Sardegna, peraltro, il rigore e la sobrietà sono usuali fino a costituire quasi la cifra del modo di intendere la vita, quella domestica e quella sociale

Sindaco, quella che lei chiama pomposamente sobrietà, si chiama in realtà miseria. La differenza è abissale.

Di questo discorso salvo soltanto la parte in cui sono stati ricordati il rapimento di Rossella Urru e la scomparsa del prof. Giovanni Lillliu.

lunedì 20 febbraio 2012

Perchè il gasdotto non ci ucciderà

Proviamo a fare un po' di chiarezza sulla questione del gasdotto che dovrebbe attraversare la nostra isola, costruito dal consorzio GALSI, cercando di non cadere nel tranello di un terrorismo psicologico a buon mercato.
Sentiamo alcuni suoi detrattori parlare del gasdotto come "autostrada della morte" o addirittura di un tassello per il "genocidio del popolo sardo". Perdonatemi, ma mi sembra un tantino un'esagerazione.
Capisco che si possa essere contrari alla realizzazione di un'opera per diverse ragioni, ma non si può scadere nell'esagerazione.
Poi si dice che "gli indipendentisti" sono contrari alla realizzazione dell'opera: e chi l'ha detto?
Ho sentito fare questa affermazione da un esponente di un partito indipendentista, non sto a dire quale, tanto ha poca importanza: ma perchè qualcuno si arroga il diritto di parlare a nome di tutti?
L'indipendentismo non è una massa indistinta che pensa all'unisono come qualcuno vorrebbe, ma è fatto, per fortuna, di partiti e individui diversi tra loro, con idee proprie e distinte.
Evitiamo quindi, cortesemente, di parlare a nome degli altri se non espressamente delegati. E il mio partito non mi risulta che abbia incaricato qualcuno di parlare a suo nome.

Ma andiamo oltre, al nocciolo della questione.
I dubbi li ho anche io ovviamente, perchè certo far seguire la realizzazione di un'opera del genere da un governo regionale il cui presidente si è dato del "babbeo" da solo per aver dato credito alla "cricca", tra un'aragostata e l'altra (prendiamo comunque per buona l'ipotesi del babbeo, che sarebbe comunque la meno grave tra quelle in campo), non mi lascia molto tranquillo ed è ovvio che dovremo sempre e comunque vigilare.
Ma l'opera in sé è utile o no? Perchè è questa la vera domanda da farsi.

Il mio parere è che l'opera sia utile e strategicamente importante in una terra come la Sardegna che dipende quasi esclusivamente dal petrolio, risorsa costosa e fortemente inquinante.
I vantaggi dell'utilizzo del metano come combustibile sono fondamentalme due: basso costo ed emissioni inquinanti minori rispetto al petrolio.
E non è poco, perchè non solo le utenze domestiche, ma anche le imprese potranno quindi contare su una fonte energetica più a buon mercato e meno impattante sulla qualità dell'aria.
I detrattori dicono che si tratta di un tubo che dovrà attraversare l'intera isola da nord a sud "sventrandola": in Italia ci sono migliaia di chilometri di gasdotti... vi pare una terra sventrata?
Stessa cosa accade negli altri stati europei. Noi cosa abbiamo di così particolare che impedisca di realizzarne uno?
La cartina che segue rappresenta la mappa dei gasdotti in Europa:


Secondo la teoria dei comitati anti Galsi l'Europa sarebbe quindi un continente sventrato e una polveriera pronta ad esplodere da un momento all'altro.
Trovo questa una posizione a dir poco esagerata.
Innanzitutto è bene precisare che il gasdotto è un'opera interrata, quindi nessuno la vedrà: inutile quindi mostrare immagini di enormi tubi a cielo aperto che corrono per chilometri e parlare di anaconda d'acciaio o amenità varie, perchè non è certamente il nostro caso.

Poi si dice che nel progetto GALSI non sono previsti gli allacci per la distribuzione sul territorio. Non è proprio così: semplicemente le leggi italiane prevedono che l'attività di trasporto del gas e quella di distribuzione siano separate, quindi GALSI si occupa del trasporto, mentre alla distribuzione e vendita dovranno provvedere le aziende che si occupano di questo passaggio.
Oltretutto alcune aree urbane si sono già dotate di una rete di distribuzione locale che basterà allacciare alla condotta: le reti di distribuzione dell'aria propanata sono infatti perfettamente compatibili con l'uso del metano.

Veniamo al prezzo: si dice "vedrete che il metano in sardegna costerà più caro". E perchè mai? Al limite, introducendo un combustibile concorrente del petrolio si potrebbe abbassare anche il prezzo dei derivati di quest'ultimo.
Chiediamoci come mai proprio le aziende che producono e commercializzano derivati dal petrolio (quindi anche il gpl) si opponevano più o meno palesemente alla costruzione del gasdotto.
Mi viene in mente poi il "Progetto Eleonora" che prevedeva la trivellazione di un'area nei pressi di Oristano per la ricerca di petrolio, ma che con l'avvicinarsi dell'inizio dei lavori per il Galsi si era trasformato magicamente in un progetto di ricerca di metano. Può essere che l'azienda ipotizzasse realmente che lì sotto ci fosse un giacimento di metano, ma il dubbio che la cosa servisse soprattutto a raffreddare l'operazione Galsi continua a rimanere. Può anche essere che mi sbagli, chiaramente.

"Eh, ma la sicurezza?"
Ma vogliamo forse credere che un sistema in cui c'è una bombola di gpl per ogni appartamento, in mano a chiunque, sia una più sicuro di una condotta costantemente controllata da professionisti e dotata di tutta una serie di sistemi di sicurezza?



Poi ancora si potrebbe obiettare che ci sono anche le fonti rinnovabili. Si, certo, ma hanno un "piccolissimo" problema: l'energia prodotta con questi sistemi deve essere consumata subito in quanto la tecnologia non è ancora in grado di stoccarla. Quindi è chiaro che non possiamo legarci del tutto a fonti che non siano costantemente disponibili.
Se fossimo in una sala operatoria e mancasse la corrente non credo sarebbe piacevole... quindi meglio poter contare su energia costante.
Piuttosto dovremmo, questo si, investire sulla ricerca per trovare il modo di immagazzinare l'energia prodotta da fonti rinnovabili e poter abbandonare i combustibili fossili.
Sempre ammesso che nessuno poi dica che le pale eoliche o i pannelli fotovoltaici sono brutti (o che esplodano... perchè se va in corto circuito, qualunque sistema di produzione elettrica può prendere fuoco).

Insomma, la sostanza è che si può essere legittimamente favorevli o contrari, ma il gasdotto non ci ucciderà.




lunedì 13 febbraio 2012

Atene brucia. Non bruciamo l'Europa.


E Atene brucia.
Devo ammettere che le immagini che ho visto sul web fanno impressione e anche se qualcuno sfoga le proprie frustrazioni di rivoluzionario da tastiera esultando per la rivoluzione in corso, auspicandone una diffusione in tutto il continente, io invece sono più che altro preoccupato e l’idea di una guerra civile non mi esalta per nulla, anzi.
Ma cosa sta succedendo davvero e cosa è successo nella culla della democrazia?

È successo che il passato governo di destra aveva truccato i conti per rispondere in modo assolutamente fittizio ai parametri fissati dall’Unione Europea, ma non aveva fatto realmente nulla per ridurre sprechi, debito pubblico e spese incontrollate.

Nel 2009 il PASOK, partito socialista ellenico, vince le elezioni e il primo ministro Papandreou si trova di fronte alla realtà dei fatti: la Grecia non ha i conti in ordine e il rapporto deficit/pil è al 12,7%, circa 4 volte il limite consentito dall’UE e la disoccupazione è intorno al 10%. Un disastro. Disastro doppio, perché la Grecia è già nella zona Euro e una crisi ellenica rischia di trascinare nel baratro tutto il continente, che già di suo non gode di ottima salute.

A questo punto è chiaro che si debba intervenire: siamo all’inizio del 2010, l’Europa perde tempo sulla questione “aiuti si, aiuti no”.

Papandreou inizialmente fa quel che può, ma senza l’UE non può risolvere da solo la situazione.
La destra greca nel frattempo, dimenticandosi di essere la vera responsabile del disastro, alza la voce, attacca il PASOK, dichiara inaccettabili le misure di tagli e sacrifici, accusa un po’ a casaccio chiunque le capiti a tiro… ma solo a me ricorda qualcosa?

Il tempo comunque passa e la situazione peggiora. Le agenzie di rating continuano a declassare il paese. Gli aiuti arrivano col contagocce e Papandreou è costretto alle dimissioni.

Papademos, uomo della banche e del capitalismo, gli succede e inizia l’ultima fase, in ordine di tempo, della crisi: sia arriva alle misure draconiane che tutti conosciamo: tagli selvaggi, mercato del lavoro stravolto in cui saltano le tutele, riduzione degli stipendi.

In una condizione del genere era facile capire quello che sarebbe successo e i disordini di questi giorni a mio parere erano più che prevedibili. Si è tirata evidentemente troppo la corda e la situazione sta ora sfuggendo di mano. Questi disordini erano prevedibili, ma nulla è stato fatto per evitarli.
Per evitarli sarebbe bastato non fare, come si dice, macelleria sociale. Sarebbe bastato non scaricare tutto il costo della crisi sulle classi più deboli, tagliare gli sprechi e i privilegi evitando però di indebolire e impoverire le classi lavoratrici, andare a risanare i conti partendo dalle classi abbienti e dai grandi patrimoni. Sarebbe insomma bastato che un governo socialista portasse avanti politiche socialiste senza farsi dettare la linea dalle lobbies del capitalismo.
Il governo socialista si è invece mostrato debole e poco coraggioso, finendo per dover cedere il passo e consegnare il paese a chi di fatto è una sorta di commissario ben visto da Europa, banche e capitalisti.

Questa la situazione in Grecia, ma nel resto d'Europa?
Non dovremmo stare tranquilli, dato che il trend è quello di allinearsi alle politiche liberiste imperanti: basti vedere cosa è accaduto in Spagna, dove a pochi mesi dall'insediamento del nuovo governo conservatore si è varata una misura che rende più economico il licenziamento, dimezzando di fatto il risarcimento da pagare al lavoratore.
La tesi bizzarra è che facilitare i licenziamenti favorirebbe l'occupazione. Come, di grazia? Che senso ha? Come si può far crescere l'occupazione sbattendo fuori dalle aziende i lavoratori? Al limite una misura del genere favorisce la precarizzazione, ma credo non interessi a nessun lavoratore o aspirante tale.
Anche in Italia (e quindi purtroppo anche in Sardegna) il dibattito intorno a questo tema sta procedendo e le linee guida sembrano purtroppo sempre le stesse: anzichè estendere a tutti le tutele, si pensa di abolire l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori anche laddove già si applichi. Articolo che, lo ricordo per chi fosse distratto, non vieta il licenziamento per questioni legate a crisi economiche aziendali, così come non vieta di licenziare chi non svolga a dovere il proprio lavoro o danneggi l'azienda, ma vieta il licenziamento senza giusta causa, che è ben altra cosa. Lo scandalo semmai è che alle aziende al di sotto dei 15 dipendenti non venga applicato. Lo scandalo sono i lavori precari e sottopagati e le finte partite iva.
Lo scandalo sono le politiche ultraliberiste che stanno imperversando e travolgendo la società europea.

domenica 5 febbraio 2012

Tu quoque?


Ma che palle! Un altro blog?

Si e ve lo beccate tutto.

Ma perchè?

Scusa eh, ce l'hanno cani e porci, perchè non posso averlo io che nemmeno ho ancora capito a quale delle due categorie appartengo?

Ma credi di poter dire qualcosa di talmente originale che proprio se ne sentisse la mancanza?

Assolutamente no, come per tutti. Ma almeno io lo dichiaro.

Cominciamo col dire chi sei, ammesso che a qualcuno interessi?

Ovviamente non interessa a nessuno, comunque sono Fabio Cocco, noto (a chi?) anche come "Soares", indipendenstista e di sinistra.
Qualche mese fa, dopo anni di varie peripezie nei movimenti indipendentisti sardi, ho fondato, insieme ad alcuni compagni, Manca Democràtica, il primo partito indipendentista in Sardegna che abbia dichiarato di fondare le proprie basi ideologiche nel solco della sinistra democratica europea. Se volgiamo una piccola rivoluzione nell'indipendentismo isolano, finora ingessato tra nazionalismi conservatori, estremismi, trasversalismi amorfi e centrismi non troppo dissimulati.
Nella vita vedo gente e faccio cose e quando non vedo gente e non faccio cose lavoro nel campo della comunicazione.

E nonostante lavori nella comunicazione fai una presentazione così cretina?

Ebbene si. Fattene una ragione, chiunque tu sia.

Qual è il punto di vista di questo blog?

È il mio punto di vista: il mondo osservato e commentato da una prospettiva di sinistra;
una serie di mie personali riflessioni filtrate dal mio modo di vedere le cose;
una visione soggettiva e dichiaratamente di parte.
Non avrò mai l'arroganza di parlare a nome di qualcun altro, men che meno di un popolo (e in questi tempi di populismo imperante non è una cosa da poco): qui avrete sempre e solo la mia personale e schieratissima idea.

Perchè questo nome?

E perchè un altro? Forse perchè è la mia voce personale. Rossa come le bandiere del socialismo.
Qualcuno, dall'alto del suo essere "rivoluzionario", obietterà che sono "solo" un socialdemocratico: si, certo, ma le bandiere dei socialisti europei sono rosse, quindi rassegnatevi pure.

Va bene... e con cosa ci annoierai?

Non lo so... o meglio, credo un po' con tutto quello che mi verrà in mente.
Si è comunque liberi di leggere, di non leggere e se si vorrà di commentare.

Insomma, non mi sembri molto originale

E quando mai ho avuto questa pretesa?

Ok, scàllati!

Grazie e altrettanto.